Parola di Andrea Angonese, alle spalle una storia nella classica impresa di famiglia; oggi esponente di quella nuova vocazione di essere imprenditori creando relazioni, facendo sistema, muovendo le cose in modo che alla fine si arrivi al sodo: dare ai clienti la tecnologia di cui hanno bisogno. Ed è questa la vocazione di Angomac.

Andrea Angonese
Una vecchia denominazione per una mission del tutto nuova: puntare alla sostanza. Questa la scelta di Andrea Angonese, poco più che trentenne, erede della Angomac fondata negli anni Novanta da suo padre. Una eredità che, in qualche modo, ha fatto veramente propria, decidendo di cambiare radicalmente strada ma rimanendo fedele alla sua vocazione, ovvero le macchine per la primissima lavorazione del legno, per la segheria, processi che nel Vicentino – la sua terra – hanno lunghe radici e salde prospettive, ma che lui ha voluto e saputo gestire in un modo nuovo.
Ed è stato davvero un piacere incontrarlo in una splendida e inattesa giornata di novembre stracolma di sole, con attorno i primi contrafforti delle Alpi venete e davanti a una buona birra che produce un suo amico (in privato possiamo darvi l’indirizzo, perché ne vale la pena…). Piacevole non solo per le circostanze, ovviamente, ma perché quello che ci ha raccontato rappresenta indubbiamente uno dei capitoli più “particolari” e coinvolgenti di questo “Focus Triveneto” e ora vi raccontiamo il perché…
“È stato mio papà a fondare la Angomac”, ci racconta: “Ha lavorato per molti anni per uno dei più conosciuti rivenditori di macchine per il legno del Veneto, proponendo tecnologie per la segheria di noti costruttori italiani, tedeschi e austriaci, fino alla decisione di mettersi in proprio. La classica impresa di famiglia, qualche dipendente, e la scelta di giocare di sponda: ritirava le macchine usate, le rimetteva a nuovo e le rivendeva. Un progetto che funzionò molto bene, perchè ci permise di vendere ottime macchine, perfettamente funzionanti, a un prezzo decisamente “interessante”: abbiamo lavorato molto bene in Africa, dove non c’era segheria che non avesse comperato qualcosa anche da noi. In diversi casi abbiamo gestito interi impianti “chiavi in mano”, perché la nostra esperienza ci permetteva di aiutarli a creare linee complete… erano indubbiamente altri tempi, quando le condizioni in cui le macchine operavano erano tali da dissuadere molti ad acquistare costosi impianti nuovi di fabbrica. Pensi che ci fu addirittura un anno in cui vendemmo più macchine noi di un costruttore italiano di cui non faccio il nome!
Una storia molto bella, che ho vissuto in prima persona, essendo entrato in azienda molto giovane: le ultime vendite in Gabon e anche in Camerun le ho seguite io e ancora oggi è un mercato che “frequentiamo”, per quanto oramai l’offerta cinese la faccia da padrona in moltissime situazioni. Oggi si lavora in modo diverso e si preferisce lavorare con tecnologie di bassa qualità, 24 ore su 24, con una cronica mancanza di competenze che rende la manutenzione un optional; così le macchine hanno inevitabilmente vita breve, ma vengono acquistate a prezzi talmente bassi che quando si rompono si preferisce sostituirle.
A questa evoluzione si è aggiunto il fatto che, tre anni fa, mio padre ci ha lasciati e io ho deciso di rivedere le strategie di Angomac, iniziando a produrre macchine nuove, refilatrici, manuali o automatiche, piuttosto che linee di troncatura per elementi di pallet. Avevamo fatto qualcosa anche prima, ma il business delle revisioni era così “generoso”…”.
Sempre con il marchio Angomac”?
“Sì. Ora gestisco io l’azienda di famiglia, ma è cambiato tutto in modo radicale: come le ho accennato le condizioni erano diverse e non aveva molto senso continuare a battere lo stesso chiodo. E così ho venduto l’officina e deciso di affidarmi a fornitori che conoscevamo da tempo, affidando a loro la costruzione delle macchine, le riparazioni, gli interventi. Io mi occupo di tutto ciò che avviene fuori dall’azienda: conosco i mercati, conosco le segherie e i loro titolari. Li incontro, comprendo le loro necessità, immagino la macchina o la linea che può fare al caso loro, la progettiamo e se troviamo l’accordo affido la costruzione ai miei fornitori e la faccio installare alle squadre di mia fiducia seguendo di persona ogni singolo passaggio, partecipando anche fisicamente all’assemblaggio”.
Dunque lei è un esperto di queste tecnologie con capacità commerciali e in grado di gestire la logica di una azienda dalla a alla zeta, per quanto possa essere complessa…
“… se restiamo nel mio mondo sì! In questo c’è molto Triveneto: forse altrove questo non sarebbe stato possibile, ma qui a Thiene siamo nel cuore di un distretto dove le macchine per la segheria sono di casa, anche perché i boschi non sono mai mancati! Non solo: da Montecchio in poi è un fiorire di imprese di piccole, grandi, medie dimensioni dove trovo tutto ciò che ci serve. Che senso avrebbe avuto creare un’azienda per produrre parti, carpenterie ed elementi che si possono reperire facilmente e di ottima qualità?
Compro i motori, le parti, i sistemi di carico e scarico: se qualcosa manca lo faccio produrre e poi il tutto viene assemblato in officine di mia assoluta fiducia, con le quali esiste un profondissimo rapporto di collaborazione, direi di complicità e condivisione”.
Sempre guardando alla segheria…
“Sono innamorato di quel mondo, una passione che mi ha trasmesso mio padre, fatta di odori, di legno, di resina che si attacca alle mani e ai vestiti. Forse in Italia ci sono meno segherie di una volta, ma c’è ancora tanto da fare, perchè il mondo – come qualcuno ha detto – è metà da vendere e metà da comperare! Il trucco, se di trucco possiamo parlare, è trovare il proprio metodo, il proprio spazio, lavorare per clienti di una taglia adeguata a quanto si vuole e può proporre. Pensi alle nostre refilatrici: è un mercato talmente piccolo che interessa a pochi e, per giunta, nel raggio di un centinaio di chilometri da noi ci sono decine e decine di imballatori, il nostro target di riferimento. Lo stesso vale per le segherie di piccole e medie dimensioni: poco prima di incontrarci per questa intervista ho chiuso un importante contratto per una linea di segagione completa, dal tronco alla tavola refilata… sanno chi sono, sanno che ho una storia alle spalle, conoscono l’esperienze che in questo mondo perchè mio padre me lo ha insegnato e io ho voluto impararlo, perchè mi affascina… sanno che collaboro con progettisti che conoscono molte bene queste macchine, che scelgo motori e componenti di prima qualità e che le macchine sono costruite con una carpenteria adeguata, sono fatte bene. Sanno che seguirò ogni fase della commessa e che non dovranno occuparsi di nulla, tranne entrare un bel giorno nel capannone, girare la chiave e iniziare a tagliar tavole e listelli.
Vede, stiamo parlando di un mondo molto particolare, legato alla terra e alla natura da cui il legno nasce, gente che lavora per venti o trent’anni con la stessa macchina che deve dunque essere indistruttibile, non avere mai bisogno di alcuna assistenza, se non l’affilatura delle lame. Macchine semplici ma forti alle quali, come peraltro molti altri, ho aggiunto valore abbinandovi tastiere, azionamenti, pannelli “touch screen” e controlli in piena “Industria 4.0”, una evoluzione tecnologica che le ha rese ancora più semplici, facili da gestire, perfomanti, “controllabili” da remoto. La segheria è un mondo nel quale le macchine non devono assolutamente creare i problemi e Angomac è molto brava in questo, a farsi carico di ogni aspetto. Non stiamo certo parlando dell’evoluzione che hanno vissuto le macchine per la seconda lavorazione, dove tutto è molto più sofisticato: qui si tratta di rendere il tutto sempre più facile, ma se si confronta una mia macchina con una di quarant’anni fa sembrano proprio uguali, per quanto quelle moderne lavorino meglio e di più, consentano importanti risparmi energetici e una gestione molto più completa”.
Lavorate solo in Italia con la “nuova Angomac”?
“No, lavoriamo bene anche in Europa e manteniamo contatti in Africa, anche se non come un tempo, nelle segherie di latifoglie. A dire il vero esportiamo quasi l’intera nostra produzione, anche se non è semplice muoversi nei mercati del mondo, perché la segheria è un mondo “vecchio”, tendenzialmente sempre molto uguale a se stesso: non è attraente per i giovani e diventa difficile trovare buoni agenti o anche manodopera. È un lavoro duro, spesso in condizioni climatiche “complesse”. Non è un caso che diventino sempre più numerose le richieste di macchine e impianti più automatizzati, anche da Paesi dove la manodopera è a buon mercato. Su questo versante, come le dicevo, in Europa ci sono comunque ancora tante realtà di piccole e medie dimensioni, aziende molto spesso famigliari dove si lavora senza sosta, estremamente flessibili, che rimangono una parte significativa del nostro fatturato.
La segheria è affascinante, si ha a che fare con clienti che ti riempiono della loro energia, della loro storia, ma il legno è una materia prima che viene sempre pagata molto poco e da qui la scelta di molti di avvicinarsi al mondo dell’imballaggio, sicuramente più remunerativo, per quanto anche qui i margini siano piuttosto ridotti e il gioco valga la candela soprattutto quando la “materia prima legno” è a portata di mano, altrimenti è una follia… le dico solo che molto spesso l’utile lo si fa con la segatura, con i residui che oggi sono ricercatissimi per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Il legno sta recuperando spazio nella costruzione, è un fenomeno a cui assistiamo oramai da anni, ma è un contesto che non mi affascina, anche se abbiamo qualche collaborazione anche in questo segmento. Rimango convinto che nella segheria, nel legno da imballaggio e nel settore del legno latifoglia ci sia ancora molto da dire, anche se il ricambio generazionale è davvero minimo: è un mondo che ha bisogno di essere rinnovato e, in fondo, io nel mio piccolo sto dando una mano con un modo di fare impresa, di fare macchine totalmente fuori dagli schemi.
Nei prossimi anni voglio arricchire il mio catalogo, aggiungere nuove macchine ma sempre nel mondo della segheria e delle primissime lavorazioni. Manterrò intatta la mia “leggerezza di pensiero”, ma vorrei avviare nuove collaborazioni grazie alle quali poter fare cose sempre più importanti: negli ultimi anni, ma dire il vero, ho sondato il terreno, ma devo dire che ho trovato una accoglienza abbastanza fredda… non mi do comunque per vinto, perché sono convinto che da partnership, collaborazioni, condivisioni possano nascere buone opportunità per tutti: non solo il classico imprenditore italiano che guarda al proprio giardino, ma vedo che questo modo di guardare alle cose non è purtroppo diffuso. Chissà se le prossime generazioni…”.